Don Marco Mangiacasale non è più prete

Marco Mangiacasale, dopo aver scontato due mesi di isolamento nel carcere del Bassone, a Como, si trova protetto nella casa della sorella, in attesa della sentenza definitiva della Cassazione. Nel frattempo ha già risarcito le famiglie coinvolte in questa brutta vicenda, come disposto dalla giustizia civile. Ora, in tempi piuttosto celeri, è giunta anche la decisione della giustizia vaticana che ha disposto la sua riduzione allo stato laicale.  La disposizione della Gerarchia ecclesiastica è stata letta il 30 gennaio negli uffici del Vescovo Coletti, di fronte alle famiglie coinvolte. Don Marco Mangiacasale, quindi, è stato ridotto allo stato laicale, e non potrà fare l’educatore nelle scuole cattoliche né partecipare in ogni modo a gruppi o organizzazioni dove siano presenti dei giovani.

Di seguito il comunicato stampa della Diocesi di Como con un commento di mons. Angelo Riva, Direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali e de “Il Settimanale della Diocesi”

ARTICOLO A FIRMA DI MONS. ANGELO RIVA, DIRETTORE DELL’UFFICIO COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA DIOCESI DI COMO (pubblicato sul Settimanale)

Il procedimento canonico che ha coinvolto don Marco Mangiacasale si è svolto, come da prassi
consolidata, secondo quella regola di riservatezza stabilita a tutela di tutte le parti direttamente
implicate nell’iter processuale. Si tratta di un atteggiamento di prudenza, coestensivo a tutta la
durata del processo canonico (dall’avvio della fase diocesana alla comunicazione della sentenza agli
aventi diritto), il cui obiettivo è di evitare danni maggiori, ferite e lacerazioni, inflitte dall’eccesso di
esposizione mediatica a persone e comunità già di per sé attraversate da una non piccola sofferenza.
Qualora tale riservatezza venga inopinatamente a cadere, c’è il rischio che la diffusione della
sentenza possa originare interpretazioni parziali o distorte in merito a fatti e persone coinvolte.
Sorge in questo caso la necessità di rompere la saggia consegna della riservatezza, e di ritornare,
con uno sguardo complessivo ispirato a verità e carità, sull’intera vicenda.

[1] Don Marco Mangiacasale si è reso responsabile di peccati gravi, che sono anche dei reati, per i
quali la giustizia penale sta compiendo il suo corso (si attende la sentenza di terzo grado) e la
giustizia canonica ha irrogato il massimo della pena prevista. Ciò va detto in capo ad ogni altra
considerazione, perché rappresenta la pietra miliare di ogni possibile riconciliazione e ricostruzione
di relazioni. E’ a partire da questa certezza che le persone coinvolte – a cominciare dalle vittime e
dalle loro famiglie – possono intraprendere una faticosa risalita.

[2] In rapporto ad alcune inesatte interpretazioni circolate fin dai giorni dell’arresto, lo stesso
principio di verità e giustizia esige l’assoluta chiarezza circa i fatti occorsi e la natura dei reati per i
quali don Marco è stato giudicato responsabile. Veniamo infatti ad apprendere – direttamente dalle
motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado della giustizia penale – della derubricazione
concernente il reato giudicato rispetto alla prima contestazione dell’ipotesi accusatoria; che il reo
ha reso piena confessione, dichiarando anche alcuni episodi di per sé non contestati; che ha risarcito
le parti lese attraverso un accordo pienamente satisfattivo; che ha superato i test diagnostici
concernenti eventuali patologie psichiatriche o comportamentali. Sia detto allora con chiarezza – in
nome della stessa verità e giustizia che ha portato all’emissione delle sentenze – che don Marco non
è un pedofilo, non è malato, non è socialmente pericoloso. E’ un peccatore che ha commesso dei
crimini per i quali è stato giudicato, in sede tanto canonica che civile. E’ davvero deprecabile che una
certa immagine “mostruosa” dell’imputato abbia finito per diventare di pubblica opinione ben
al di là della sua reale consistenza. Questo non è giusto. Riteniamo doveroso che ognuno venga
giudicato fino in fondo per quello che ha fatto, ma anche che questo (e non altro) debba costituire
l’oggetto del pubblico convincimento, al di là di prime, sommarie comunicazioni rivelatesi poi
destituite di fondamento. 


[3] Fin qui arriva il percorso della giustizia umana, civile e canonica. Suo compito è di predisporre
quella “misura minima di carità” (Papa Paolo VI, 23 agosto 1968) a partire dalla quale si aprono gli
spazi tipicamente cristiani della misericordia verso chiunque abbia sbagliato o sia stato vittima degli
errori altrui. La Chiesa ben conosce il volto malvagio e distruttivo del peccato dell’uomo, ancor più
quando lo vede iniettarsi nei suoi figli, talora nei suoi preti, e corrompere il tessuto delle relazioni e
della comunità cristiana. Eppure, fedele a una santità che essa non sa darsi, ma solo può protendersi
a invocare e ricevere dal suo Capo, la Chiesa non cessa di credere nell’uomo, e nella sua capacità di
ritessere legami di riconciliazione. Il perdono reciproco che quotidianamente invochiamo dal Padre
celeste è per i cristiani forza sorgiva di ricostruzione e di pace, anche fra le macerie degli abbagli e
degli errori umani. Nessuno, ci sta dicendo papa Francesco, potrà mai rubarci la speranza riposta in
questo cammino di misericordia. Don Marco non era un cattivo prete. E’ stato fragile e peccatore, e
sta pagando fino in fondo per i suoi errori. La Chiesa di Como sa di volergli ancora bene, e di dovergli
porgere, dopo l’aceto aspro della giustizia, il balsamo della misericordia. A partire da questa giustizia
e da questa misericordia, tutti coloro che in vario modo hanno patito scandalo e ferita da questa
dolorosa vicenda – a cominciare dalle vittime e dalle loro famiglie, così duramente colpite nei loro
affetti più intimi – possono riprendere, faticosamente ma con speranza, il cammino che ci porta ad
essere più umani.

Don Angelo Riva